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I G.91 dell’US Army

Posted by on 5 Gennaio 2013

G.91
Nel 1961 il Fiat G.91 fu testato per un breve periodo anche dall’US Army, la cui aviazione da poco aveva piantato le tende in quel di Fort Rucker, Alabama.
All’interno dei confini del retrogrado stato americano all’epoca stavano avvenendo cose interessantissime. Nella cittadina di Huntsville si stava lavorando alacramente al programma spaziale con von Braun e compagnia, mentre a Fort Rucker un pugno di brillanti ufficiali stava gettando le basi per la futura aeromobilita’ dell’US Army, una rivoluzione che – per impatto – si sarebbe in seguito rivelata seconda solo alla meccanizzazione.
Il Re indiscusso di questa rivoluzione era l’elicottero, ma nondimeno l’US Army mostro’ grande interesse anche nei confronti degli aeromobili ad ala fissa, inclusi caccia a  getto. La capacità del G.91 di operare da sedi campali in particolare suscito’ grande interesse.
Il paragrafo che segue e’ tratto dal libro di memorie dell’ingegnere Giuseppe Gabrielli (G.55, G.222, G.91 etc) intitolato “Una vita per l’aviazione” ed edito per la prima volta nel 1982 dalla casa editrice Bompiani.
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Gli Stati Uniti, che avevano seguito con particolare interesse la realizzazione di questo primo aeroplano NATO ed erano attenti a tutte le fasi della sua evoluzione, ci furono larghi di aiuti, quando avemmo bisogno di ricorrere alle loro attrezzature sperimentali. Fra queste la prova più significativa e importante fu quella del comportamento di tutte le apparecchiature del velivolo in funzionamento dentro una grande camera di climatizzazione vicino a Baltimora.
Su loro richiesta un G.91 fu inviato oltreoceano per essere sottoposto alle severe prove prescritte dai regolamenti in uso negli Stati Uniti. Le autorità militari americane avevano chiesto di provare l’apparecchio per un approfondito esame, in paragone ai loro aeroplani dello stesso tipo, ma più vecchi, più grossi e pesanti, che erano già in servizio da qualche tempo.
Il nostro ministero della difesa accondiscese e ci invitò ad inviare in America un G.91 con un nostro pilota collaudatore nella segreta speranza di un eventuale sbocco commerciale negli Stati Uniti.
G.91
Bignamini, che si era completamente rimesso dall’incidente di Caselle, era la persona più adatta per una simile missione. Parlava perfettamente l’inglese ed era conosciuto e stimato dai piloti collaudatori americani. Per giunta ambiva a questo incarico. Un grosso aeroplano da carico americano venne a prelevare a Torino un G.91 opportunamente smontato e munito di tutte le parti di ricambio. Sullo stesso apparecchio si imbarcò un gruppo di tecnici del campo volo, con a capo l’ingegner De Cristofaro, che dovevano svolgere il lavoro di assistenza.
Iniziarono così le dure prove americane che si svolsero in varie regioni, sempre in comparazione con gli aerei statunitensi, quale l’AD-4 della Lockheed (Gabrielli si riferiva all’assaltatore A4D Skyhawk, che pero’ era costruito dalla Douglas, non dalla Lockheed. NdAleks). Le diverse località venivano scelte a seconda delle missioni da compiere, comprendenti anche voli in zone torride e su terreni sabbiosi.
I rapporti tecnici che ricevevo e le lettere che Bignamini costantemente mi inviava mostravano il suo entusiasmo e quello del piccolo gruppo di uomini che lo seguiva e che non tralasciava alcunché per rendere più brillanti le qualità del nostro aereo.
La possibilità che il G.91 potesse essere acquistato dagli Stati Uniti o riprodotto su licenza, non costituiva soltanto una meta ambiziosa per la FIAT, ma aveva interessato anche vari ambienti industriali statunitensi. Ce n’era giunta qualche eco, ma non osavamo essere ottimisti anche se i fatti ci inducevano alle speranze, perché il G.91, nel suo genere, era un aeroplano che si differenziava da tutti gli altri. Gli stessi aeroplani americani che facevano le prove in concorrenza con il velivolo italiano, erano nati prima su concetti di impiego simili, ma un po’ esuberanti rispetto agli scopi indicati dalla NATO.
Intanto era maturata l’idea di munire il G.91 di razzi per l’accelerazione del decollo. I razzi erano impiegati in America anche su grossi velivoli e quindi sembrò logico e opportuno applicarli anche a velivoli leggeri come il G.9i, per accorciarne ulteriormente la lunghezza di decollo.
Tali razzi di varia dimensione erano denominati JATO (Jet Assisted Take 0ff). Erano stati ideati da von Kàrmàn durante la guerra e venivano prodotti da una società fondata dallo stesso Kàrmàn con Frank Malina (l’Aerojet-Engineering Corporation che divenne più tardi Aerojet General-Corporation) con sede ad Azusa in California.
Dopo la guerra, con la partecipazione della FIAT — utilizzando lo stabilimento di Colleferro, di proprietà del commendator Stacchini — fu creata una società per la produzione degli JATO anche in Italia, perché il nostro ministero era interessato a questo nuovo tipo di razzo a propellente solido.
Mettemmo quindi in progetto, su richiesta delle nostre autorità militari, l’applicazione degli JATO sui G.91; fu creata un’apposita piastra portarazzi, che veniva opportunamente disposta sulla pancia della fusoliera, in modo che i razzi convergessero la loro spinta sul baricentro del velivolo, per evitare qualsiasi azione di disturbo dell’equilibrio della macchina. Le piccole dimensioni del velivolo avevano richiesto la costruzione di adatti ugelli di scarico opportunamente orientati. Per le prove a terra avevamo installato un impianto speciale nelle officine sperimentali del Sangone e avevamo potuto assodare che l’orientamento della spinta dei razzi seguiva esattamente quello della geometria degli ugelli.
Mentre Bignamini stava per concludere la sua missione americana noi avevamo in corso (e lui lo sapeva bene) le prove di decollo del G.91 munito di due JATO. Bignamini, dall’America, insisteva perché gli fosse consentito — a coronamento delle sue prove — di presentare il decollo con i razzi.
Ero contrario, perché egli non aveva potuto evidentemente seguire le prove che facevamo a Torino e mi sembrava inopportuna una dimostrazione così nuova, anche se l’abilità del pilota era al di sopra di ogni pretesa. L’effetto degli JATO nel decollo era spettacolare. Il ministero ci invitò a passare alle prove con quattro JATO. Allora risposi a Bignamini che non avrei mai acconsentito al suo desiderio se prima non fossero stati esauriti i test a Torino. Accelerammo le prove di decollo coi razzi e avemmo la conferma che non c’erano difficoltà per i nostri piloti. Avevo anche chiesto un loro parere sull’operazione. Mi rassicurarono affermando che non c’era nulla da temere. L’entusiasmo di Bignamini ci aveva contagiati e fu deciso di accontentarlo. Spedimmo in America le piastre di supporto, i razzi e le istruzioni per adattare il velivolo alla nuova installazione.
A conclusione delle sue operazioni Bignamini doveva mostrare il decollo del G.91 con l’ausilio di quattro razzi. Compiuta questa prova avrebbe dovuto essere accompagnato in un vicino aeroporto civile per imbarcarsi e tornare in Italia. All’atto finale della sua splendida missione, quel giorno sul campo di Fort Rucker (Alabama) oltre agli addetti erano convenuti dalle vicine basi aeree numerosi altri ufficiali piloti, amici di Bignamini. Volevano salutarlo e festeggiarlo prima della sua partenza. Quel saluto non ci fu. L’aeroplano decollò rapidissimo, Bignamini sganciò, come doveva, la piastra dei razzi esauriti, ma non appena si staccò dal suolo assunse una rampa di salita troppo ripida ed entrò in stallo.
Tutto era avvenuto così fulmineamente che il pilota non ebbe il tempo di lanciarsi col seggiolino eiettabile e il velivolo si schiantò al suolo. Era il 27 luglio 1961.
Mi trovavo a Oslo per una delle annuali riunioni dell’AGARD (Advisory Group for Aerospace Research and Development, un ente NATO R&D. NdAleks); la notte versò le tre fui svegliato da una telefonata del dottor Raffagni da Torino. Seppi così della sciagura. Mi precipitai all’aeroporto e presi il primo aereo per l’Italia. A Milano erano ad attendermi i miei più stretti collaboratori e i piloti. Ci mettemmo subito al lavoro per capire le cause di quanto era successo.
L’aeroplano era un G.91 R3 preso dalla linea di produzione tedesca e volava a pieno carico di combustibile con due bombe da 500 libbre. Il pilota aveva acceso gli JATO circa sette secondi dopo il rilascio dei freni.
Dalle nostre indagini emerse che all’atto dell’accensione dei razzi il velivolo aveva assunto un assetto corrispondente al contatto del pattino di coda con il suolo, circa 11 gradi. Il pilota non aveva percepito la tendenza del velivolo a cabrare, in quanto questo poggiava sul pattino; Bignamini non se ne era accorto per il rumore dei razzi e infatti non agì sull’equilibratore per contrastare gli effetti negativi. All’atto del distacco un momento instabilizzante pose il velivolo in un assetto e su una rampa critica, nella quale l’azione di correzione longitudinale non poteva agire.
La salma di Bignamini giunse a Caselle per via aerea il 2 agosto e con tutti gli onori militari fu inumata nel cimitero di Torino. Il professor Valletta volle ospitarla temporaneamente nella sua tomba di famiglia, in attesa che fosse tumulata nella cappella che la FIAT fece costruire adornandola col simulacro di una semiala del G.91.
Il mio dolore per la tragica perdita di Bignamini fu atroce. Oltre che un eccezionale collaudatore e collaboratore era per me un amico di grande statura morale e intellettuale. Profondo fu anche il lutto di tutta l’aviazione italiana che aveva avuto in Bignamini il più raro esempio di felice connubio tra il pilota e l’uomo di scienza. Alla sua memoria venne conferita la medaglia d’oro al valore aeronautico.
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Note: i G.91 testati dall’US Army furono quattro: due G.91R-1 (c/n 0042 – MM-6286) dell’AMI costruiti da FIAT e due  G.91R-3 (c/n 0065) della Luftwaffe costruiti della Dornier.
L’R-1 era armato con quattro mitragliatrici Colt-Browning calibro .50, l’R-3 con due cannoncini DEFA da 30mm.
Questi aerei arrivarono negli USA attraverso cargo Douglas C-124 Globemaster II.
L’US Army in seguito ricevette anche un addestratore biposto G.91T (MM.6289/NC.2).

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